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Spassiba, tovarish!

19 maggio 2008 23:52cordame

Il capitano di macchina Andreij Kontinovich questa volta era inviperito come non mai. Le narici gli si erano dilatate, sbuffava come una pentola a pressione; era al limite del proprio controllo, ma con sforzo indicibile si trattenne dall’agire come gli gridava l’istinto, e per quella volta si limitò ad un unico secco commento:

– Imbecilli!-

Dopodiché si tolse la tuta da lavoro. Era la prima volta in quasi due anni che lo conoscevano. Si mise a torso nudo svelando due braccia da fabbro con un tatuaggio stampato sul deltoide sinistro che lasciò i presenti di ghiaccio: un’ancora rosso fuoco. Tutti conoscevano quel simbolo. Quell’ancora rappresentava il cargo atomico Sevmorput, il quale dieci anni prima nel mare del Nord si salvò da una tempesta forza 12. Fu un miracolo, e la notizia fece scalpore per molto tempo. L’equipaggio che sopravvisse si tatuò quell’ancora come simbolo di fratellanza dopo lo scampato pericolo, e in memoria dei compagni caduti. Dunque il capitano Kontinovich era stato su quella nave. Nessuno di loro lo sapeva, era riuscito a mantenere il segreto per due anni. Ora cominciavano a capire. Di sicuro era lui quell’ufficiale di macchina che si rifiutò di eseguire l’ultimo ordine del comandante in plancia, l’ordine che paralizzerebbe dal terrore qualsiasi marinaio: “Aprite i Kingston”.

Ma quell’ordine non spaventò per niente Kontinovich, anzi lo fece infuriare ancora di più; si precipitò in plancia inveendo e bestemmiando contro il capitano intimandogli di revocare l’ordine altrimenti ci avrebbe pensato lui direttamente a farlo affondare e non il mare. Prima di ritornare in sala macchine si girò verso il mare e agitandogli contro il pugno gli gridò:

-Maledetto bastardo, ti faccio vedere io!-

Poi tornò alle macchine e compì il miracolo portando la potenza del reattore al centodieci per cento, riuscendo così a sfuggire a quella terribile tempesta.

Ora Kontinovich si stava spalmando il corpo di grasso e si era attaccato alla fronte una torcia da minatore, e nessuno riusciva a capire cosa volesse fare.

Lui lo intuì e quindi disse con un ghigno sarcastico e tagliente:

– Vado a mettere a posto quello che voi imbecilli non saprete mai fare, vado giù nelle tubature a cercare a mano dov’è la perdita.-

E sparì sotto la grata del ponte macchine…

Massimo Khairallah

 

Era una sera come tutte le altre

1 Ottobre 2009

Era una sera come tutte le altre. Stavo andando in palestra.
Forse no. Non era un giorno qualsiasi, avevo una sensazione strana nell’anima.
Questo non mi piaceva, mi ricordo giorni troppo pieni di grossi guai… era meglio se il mio sesto senso non si svegliava, oggi.
Questo è un brutto giorno! Non sapere da dove e come ti arriva la “sfiga” non è piacevole, ma sai che c’è. Ormai ci sono abituato a convivere con questa vita, quasi mi piace.
Sto aspettando il nuovo sparring  per il mio pugile.
Non so come si chiama, il suo allenatore non mi ha detto il nome.
Non sopporto queste cose, il Nome è rispetto. Non preoccuparsi al punto tale di non dare il nome del proprio pugile è: “Fregarsene!”
L’ho detto a voce alta… sto parlando con me stesso.
Ecco, è arrivato.
Io: “Sei arrivato, cazzo! Bravo, non è facile trovare la strada”.
Il pugile: “Ciao”
Io: “Mi sento stronzo, non ti  ho salutato, scusa.”
Gli dò una pacca sulla spalla per rompere il ghiaccio. Sento così un corpo grosso e non grasso come a prima vista sembrerebbe.
Il pugile: “Non preoccuparti, ci sono abituato, almeno tu mi hai sorriso.”
Questa cosa mi fa star male perché ha ragione, è così questo mondo.
Mi appresto velocemente a chiedere il nome, si chiama Andrea Cola.
Andrea comincia ad allenarsi così per riscaldarsi un attimo, prima che arrivi il mio pugile per fare un po’ di guanti.
Ha il titolo in palio la prossima settimana.
Non penso più a nulla e guardo attorno a me, come se fosse la prima volta che sono nella mia palestra, uno spettatore.
Basta un attimo e vedo una scena da film. I muri bianchi col colore alle pareti che si stacca, ragnatele ovunque.
Appesi alle pareti una infinità di vecchie locandine di serate di incontri di boxe. Nomi noti e nomi sconosciuti. Qualcuno adesso è campione, altri sono in cella ma per lo più sono gente normale: una famiglia, un lavoro… meglio così.
Sacchi piccoli e grandi appesi al soffitto ovunque, basta che ci fosse un posto. Sono tutti messi a caso. Tutti vecchi e vissuti ma ancora in grado di formare un ottimo pugile, se ha la passione e la follia di allenarsi.
In mezzo a tutto c’è questo grosso uomo, in un ring fatto di tavole di legno e corde da barca.
Costa troppo uno professionale, basta che funzioni.
Insomma, vedo questo pugile ormai non più giovane, per essere educati.
È lì dentro che si muove, suda e bestemmia, ma non lo vedi subito, è come se fosse lì da sempre, il suo mondo.
Questo scena mi fa sobbalzare e non so il perché.
Lo osservo meglio.
È bianco pallido, è in sovrappeso ma i suoi pugni partono comunque bene e si muove ancora meglio col busto.
Il tempo passa e i pugili arrivano. Finalmente sono sul ring.
È sempre in ritardo Paolo Tomo, il mio promettente pugile.
Al primo suono di campana i pugili si studiano.
Cola si muove appena, non capisco se è gia stanco o cerca di non sprecare nessuna energia, il suo corpo è sudato e pallido.
“Paolo! Cazzo, lavora! Non mettere forza! Schiva! Fra pochi giorni  hai il titolo, devi giocare”
Non capisce mai niente, è come un cane che si butta sulla preda quando ha fame.
“Non buttarti  addosso, stai a distanza!”
Mi distolgo un attimo dal mio pugile e osservo Cola, è in mezzo al ring come un paracarro fermo a prendersele di santa ragione. Osservo meglio e noto che la maggior parte dei colpi sono parati con le braccia. Quello che non
para si infrange su un corpo che non so come ci riesca ma attutisce ogni singolo colpo.
“Senti Paolo, respira profondamente. Ascoltami! Abbiamo solo un minuto, devi lavorare, è come giocare. Non devi fargli male, è il dieci il titolo! Mi costano troppo gli sparring!”
Siamo alla quarta ripresa e il mio pugile non capisce un cazzo.
“Paolo! Schiva il destro e non tornare sempre col gancio. Sei prevedibile. Usa il diretto! Devi stare a distanza, è grosso!”
Parte un diretto destro di Cola inseguito da un gancio sinistro alla tempia e un montante alle costole.
“L’avevo detto! Muoviti e gioca. Più colpi. E muoviti, non stare fermo!”
L’unica cosa che il mio pugile fa è appesantire i colpi, non capisce proprio nulla. Che testa di cazzo!
“Paolo, non mettere forza! Velocità! Li pago perché devi lavorare, non per pestarli! Allora, è la sesta ripresa, fai il pugile. Sei un professionista, devi fare il tecnico, non ti vede se fai come ti dico.”
Il suono della sesta ripresa.
Paolo si precipita come una furia addosso a Cola, due diretti in pieno viso e un montante destro al fegato. Si sente un sordo rumore, cupo e violento: era quello, il montante al fegato!
Andrea non sembra che abbia sofferto, sotto quella pancia molle senza tanti segni di muscoli ci deve essere un pezzo di ferro.
“Tomo! Dio… Non devi buttarlo giù! Che cazzo fai!!”
Le mie parole sono meno di zero.
Una schivata e di nuovo due pesantissimi destri e una sequenza di ganci al viso, Andrea è ancora in piedi per fortuna.
“Piano!”
Non riesco a finire la frase e noto come se fossimo alla moviola: Tomo si precipita addosso ad Andrea dopo un suo contrattacco, schiva il destro in flesso-torsione a sinistra e spara un gancio destro. È la fine.
Andrea, invece, con una naturalezza da vecchio gattone schiva il gancio e colpisce con un diretto destro e un gancio sinistro alla mandibola, in uscita. Ma da dove è uscita tutta quella agilità
Il mio pugile barcolla e cade.
“Diocan! Sarò anca matto, ma gò na dignità!”, dice Andrea.
È grosso, in mezzo al ring i fumi del calore del corpo sembrano una sorta di energia, ha la faccia rossa per la rabbia e gli occhi fissi su Tomo.
Dopo un attimo quella rabbia si dissolve in un sorriso amaro verso di me.
Non riesco a dire nulla, anche se qualcosa dovrei dire. Ha fatto bene e poi sapevo che sarebbe stato un giorno di merda!
“Cretino! La prossima settimana combatti lo stesso, così capirai cosa vuol dire avere testa, coglioni, palle o qualsiasi altro sinomimo di carattere!”
“Ottimo allenamento, Andrea, vatti a far la doccia!”
Andrea scende dal ring, come se nulla fosse avvenuto, e se ne va.
Non era una sera come tutte le altre.

Capriolo

 

Primavera 1988. L’adolescenza

Salta!

Cazzo, è già la seconda volta che spariamo tutti dalla classe. E’ più forte di noi: fuori la luce della primavera, le prime spalline che cadono, brufoli in bella esposizione, dolore in mezzo alle gambe. Salto e cado sul ghiaino bianco, rimango piegata sulle gambe. Alla mia sinistra il cimitero ebraico abbandonato, di fronte un tendone per tennis coperto e un pochino più in la il campo per giocare a pallone. Il registro è da solo sulla cattedra, lontano l’eco di risate soffocate dal cotone. Andrea arriva sgommando sulla vespa. Lui profuma di ferro, come i manubri delle palestre, come le maniglie dell’autobus d’estate. Sa di casa. Frena e prima di lui arriva la polvere. Non gli interessa nulla degli abiti, i morsi al mio panino sono come quelli della bocca della verità. Andiamo tutti a correre dietro ad una palla mentre lui è inseguito dalla professoressa che urla. L’anno dopo la Cina entrava come un pugno nella nostra maturità.
Ursula

 

Il pianoforte

Giugno 2008 – 13:30

Ha detto che ha trovato un pianoforte per strada. Ti ricordi Andrea, quello che al confine francese imitava Benito con una bombetta rossa in testa? Avevamo perso per caso l’ultimo treno e dormivamo per terra mentre lui, spinto da due amici sul carrello, riproponeva come un imbonitore certi discorsi sulle bonifiche e sul coraggio italico. Adesso lo ascolto suonare ad occhi chiusi. Sento le sue dita muoversi sul bianco e sul nero come se non avesse fatto altro. E’ tutto come la sua casa, calda e sincera, come solo i veneti riescono ad essere nel privato. Lui suona e io bacio l’uomo di turno in giardino. Possibile che si parli già di ricordi?

Ursula

Commenti:

 Che meraviglia essere così raccontati da Ursula…struggente nostalgia, parole che sembrano un blues…Lù
24 luglio 2008 15:54

 

L’amico di specchio

03 giugno 2008 23:38

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Quattro passi alla sera, nella movida spelacchiata di Milano, in mezzo a carreggiate rattoppate come coperte della protezione civile, in mezzo a palazzi brutti che nascondono storie e vecchie glorie, che solo le anziane con l’alluce valgo raccontano con la sporta in mano, al mercato del sabato mattina. Andrea ed io camminiamo in realtà negli anni della nostra vita. Fermi ad aspettare un taxi caro come il fuoco che mi recapiti a casa, facciamo il punto degli anni, delle scelte, dei nodi da risolvere. Seduti con le mani sulle ginocchia, mentre l’asfalto cede i primi calori raccolti durante il giorno, ci specchiamo. Cosa riflettono due specchi uno di fronte all’altro? E’ questa la verità che intendo. La morale della favola, il retro del cartellino, la scritta in piccolo della polizza sulla vita. Poche cose, buone come la frutta appena staccata dal ramo, indimenticabile come la ricotta mangiata di nascosto nella malga di montagna, vera come una lacrima di emozione, nascosta con i capelli un attimo prima che luccichi al sole. Ciao, lo vedo ciabattare verso casa con le infradito. Mentre la macchina corre con il vento in faccia, la gente che ride nella notte, penso: che bello avere un amico di specchio.

Ursula

 

Il genio della lampada, ovvero Gioia simultanea di saggezza primordiale

07 giugno 2008 23:18

aladin contin

In un giorno senza data…

In un buio ristorante un po’ equivoco… dove il cous cous amoreggia con la cotoletta e dove pesanti tendoni rosso porpora sfidano ma assecondano la grigia vecchia Milano ho trovato una lampada e dentro la lampada un genio.
Stava stretto, poverino, dentro la lampada.
Perché ha grandi spalle e tanti muscoli.
“Come mai genio hai tanti muscoli ?”
“Perché ho fatto tanti traslochi, bimba!”“E che tipo di genio sei?”
“Entro nella casa segreta di ognuno e la rendo trasparente. E’ una metafora ma… non ho voglia di spiegarla ora… piuttosto non ci sarebbe una sigarettina santa per me che ho corso tutto il giorno?”
“E quanti desideri puoi esaudire genio?”
“Quanti ne vuoi… puoi sprecarne senza paura di restare senza, tanto esaudisco solo i desideri degli esseri buoni.”

Un bacio, Gabriella

buon compleanno 02

 

Short Message System

19 giugno 2008 15:44


io prete

Hosognato che andavamo a messa io te e filippi, a un certo punto il prete ti indica e ti dice vieni a fare la lettura TeGiàCheci6FaiAncheL’OmeliaELaFollaApplaude

Mittente:

Vale

Inviato:

12/10/2007

10.05.18

 

Oggetto: Re: Andreij Kontinovich

24 luglio 2008 15:53

in questo momento ho il cervello talmente in pappa che mi sono dimenticato persino il codice del mio telefonino, segno che i neuroni stanno morendo ad uno ad uno e siamo vicini alla sparizione di tutti i ricordi.. per cui vorrei lasciare ai posteri almeno questo, prima che sia troppo tardi… è una delle prime cose che ho pensato di casa Contin a Milano, dove ho avuto l’onore di soggiornare per un breve ma foriero di mille emozioni periodo, per un paio di giorni persino in compagnia dell’ottimo artista. Una casa in cui ogni oggetto sembrava lì per caso solo a chi non ne conoscesse l’abitante, in cui ogni angolo, ogni remoto recesso aveva comunque indelebile impressa l’orma dell’artista.. In cui bastava lasciar vagare pigro e ozioso lo sguardo per trovare un segno della presenza del Contin, e pure del Kontinovich e perchè no di Andrea Cola… Una casa insomma in cui ogni minimo dettaglio faceva pensare a lunghe ore passate nei mercatini, ma anche a oggetti che ci erano arrivati da soli, ansiosi di raggiungere i propri pari nel palcoscenico più adatto…Insomma, tutti i dettagli… tranne uno, uno solo….

Cazzo, sei scatoloni di videocassette e soltanto un porno??????

Piddino

 

Il puma cipriota

24 giugno 2008 17:46


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Gli eresiarchi di Larnaca, racconta Tizio Scazio Apuleio, sostenevano che l’unico metodo certo per assicurarsi la salvezza nell’aldilà fosse affrontare in un’arena un puma cipriota. Completamente nudo, la fronte cinta di un drappo bianco a simboleggiare la purezza, l’eroe possedeva come unica arma da contrapporre agli artigli del puma un mestolo di legno. Contestando le motivazioni religiose del sacrifizio rituale, un gruppo di cinici storici francesi di “Les Annales” ha recentemente argomentato che chiunque dei due contendenti fosse morto, il villaggio avrebbe avuto da mangiare per tirare avanti un’altra sera. Come rompe le balle la Storia sociale, a volte, non si può capire.

Gli eresiarchi di Larnaca, in ogni caso, concedevano il diritto di sfidare i puma a tutti i giovani ciprioti, ma non a se stessi, per non peccare di orgoglio. Gli eresiarchi di Larnaca erano dei bastardi, e per questo motivo erano molto ben visti dai contadini del luogo e dai banchieri di Cnosso. Tra l’altro non erano neanche dei veri ciprioti, ma un gruppo di sudtirolesi, tutti buone forchette.Più molli, più disincantati, e soprattutto più sazi avendo nel frattempo scoperto la coltivazione del farro, i bisnipoti degli eresiarchi di Larnaca mantenevano nell’anno 700 solo il guscio esteriore di questa nobile e ferina tradizione: si spogliavano eccome, ma il puma, non più avvistato da almeno 2 secoli, era stato sostituito da una vergine, sui cui generosi fianchi spiccava a grandi lettere di gesso la parola “PUMA”. L’uso del drappo bianco, tristemente, era sparito. Solo i giovani più pedanti, attingendo allo stesso barile di gesso delle vergini, si vergavano sulla fronte le parole “DRAPPO BIANCO”, di solito al contrario, e venivano per questo derisi dagli eresiarchi, che li picchiavano sul collo gridando “Idiota! Pedante!”, e non di rado tiravano loro dei Bratwurst intinti nella senape dolce.

La situazione sarebbe presto degenerata nella lussuria e nell’intossicazione da carne di maiale, se non fosse apparso un profeta, un riformatore, un uomo di fede. Si deve ad Andreas Continopoulos, pastore di origini miste sudtirol-cipriote, la sintesi umana e simbolica capace non tanto di preservare una stanca tradizione, quanto di illuminarla di un senso tutto nuovo.

Ho avuto la fortuna di conoscere Andreas, in una delle mie vite. Lo ricordo assorto nella penombra di un fienile, intento a pucciare un wurstel nello tsatsiki. Ho percorso molti universi, sondato profondità che atterriscono, contemplato il nulla negli occhi, e me la cavo anche a freccette.

Ma ci sono dei momenti – pochi, singolari istanti in un oceano di indifferenza – in cui anche noi Immortali ci troviamo in soggezione. E io lo fui, a cospetto di quell’uomo inafferrabile. Dal volto, nell’ombra, fuggivano alcuni lampi. I riflessi del braciere danzavano, illuminando per qualche istante le mani callose. Non vidi mai i suoi occhi, ma il mio sguardo interiore intuì il suo, e lo vide fisso nel vuoto. La voce era ferma, l’accento gonfio di incoscienza e consapevolezza:

– “Da domani si torna al puma”

– “Andreas, il puma è estinto. Non ce ne sono più. E’ finito, per sempre. E qui se c’è uno che sa di cosa parla quando dice per sempre, quello sono io. Dammi retta”Un sibilo, una risata sorda, di cui non credevo capace un umano. E di nuovo un lampo negli occhi, ma questa volta, ci avrei giurato, di derisione

– “Che cosa hai capito? Il puma sono io.”

Andreas ci manca. Ma si deve alla sua tempra eccezionale, e ai suoi muscoli resi legnosi e indigesti dal costante allenamento sulle piste da sci su sassi da lui fatte costruire dietro casa, se i ciprioti sono diventati del tutto vegetariani.

Adso da Melk

 

Andereyim Continoğlü Effendi

04 luglio 2008 10:33

Turcontin 02

Ottobre 1916. Era in viaggio ormai da due settimane, e si sentiva molto stanco. Anche i muli lo erano. Quel carico aggiuntivo nascosto sotto la soma li aveva sfiancati, mentre Andereyim Continoğlü era stanco dentro, stanco di quella paura che lo attanagliava da quando si era preso l’onere di portare fino a Ljevan quello stramaledetto carico aggiuntivo. Era giunto fino a Khosrowshahr ancora febbricitante, ma ormai mancava poco per Tabriz. Lì finalmente si sarebbe riposato qualche giorno e avrebbe recuperato le forze spese nel combattere quella febbre. Febbre provocata dalla paura. Mai successo prima in vita sua. E pensare che quella frontiera l’aveva oltrepassata centinaia di volte ridendo e scherzando con le guardie, che poco a poco impararono a riconoscerlo senza che lui conoscesse loro, dato il turno mensile di quest’ultime. Lui con il suo buonumore, la sua risata a tutto tondo, l’ottima qualità dell’arak che offriva e i molti osmanli sapientemente fatti scivolare dentro i documenti, si era conquistato una fama che ormai anche chi veniva da Van a piantonare quel valico sapeva che quel mese avrebbe raddoppiato la paga se Continoğlü fosse passato. Ma quella volta fu diverso. Non aveva mai osato rischiare prima d’ora, sempre onesto con gli altri e con se stesso, ostinato ad esserlo finanche rimettendoci nei suoi affari. Fondamentalmente era un uomo giusto, di fede, propenso al bene, accomodante nelle faccende del mondo, giulivo verso il suo prossimo. Tutto sommato finora gli era andata bene, perché dunque abbandonare il sentiero della Retta Via? Inoltre aveva sentito racconti da far accapponare la pelle riguardo i trattamenti riservati ai contrabbandieri e alle spie, soprattutto quelli più raccapriccianti avevano sempre per protagonista Al-Tha’labi, un colonnello siriano in forza alla Mukhabarat militare turca. Si diceva di lui che nessuno lo avesse visto in faccia, e chi ebbe la sfortuna di farlo non visse abbastanza per poterlo raccontare. Fu proprio dopo aver sentito uno di questi famigerati racconti sul colonnello, in una bettola di Alan a qualche decina di chilometri dal confine, che Continoğlü, una volta ripresa la marcia, fu assalito da questa strana febbre che mai prima aveva avuto. Era ormai in prossimità della frontiera turco-persiana poco dopo Alan, e nonostante lui fosse turco, quindi con nulla da temere almeno sul fronte della madrepatria, una paura indescrivibile lo attanagliò mano a mano che si avvicinava al valico, e che presto si trasformò in un febbrone da cavallo. Continoğlü non si rese conto subito di ciò che gli stava capitando, ma ben presto si accorse del nesso tra due cose: la paura e la febbre. Più si avvicinava il valico di frontiera più aveva paura e più si alzava la febbre. Fu forse proprio a causa del suo stato che le guardie turche furono così comprensive e lo lasciarono passare senza quasi perquisire niente. Era passato di lì nemmeno due settimane prima, e fu per loro una generosissima manna oltre che un allegro diversivo alla intramontabile monotonia delle loro giornate. Anzi, quando lo videro così febbricitante si preoccuparono per lui e gli diedero un antico rimedio cosacco, un intruglio caldo di latte di asina, datteri, acquavite e pepe nero. Fu abbastanza ributtante, ma ebbe l’effetto desiderato: lo scosse abbastanza che nel giro di un giorno e una notte senza mai fermarsi, riuscì ad arrivare a Haidarabad sul lago Umria. Lì si riposò una paio di giorni, ma la febbre non passò del tutto fino a che non arrivò a Tabriz sano e salvo.– Cosa mai mi è passato per la testa, quando ho accettato questa follia? – continuava a chiedersi Continoğlü ossessivamente. Padre Dardarian gli aveva sì salvato la vita a Damasco, nascondendolo nell’abbazia degli Armeni dalle grinfie degli sgherri di Omar Effendi, un potente mercante damasceno, contro il quale Continoğlü aveva testimoniato dando ragione al cesellatore armeno che aveva osato denunciare l’Effendi per una commessa non pagata da quest’ultimo. Ma quel “piccolo” favore che padre Dardarian gli aveva chiesto andava ben oltre le sue possibilità: portare fucili non solo aldilà della frontiera, ma farli arrivare addirittura in territorio armeno ai combattenti contro la Sublime Porta era veramente inaudito. Lui, Continoğlü, non si era mai interessato di cose politiche, che ne sapeva lui di cosa facessero i turchi contro gli armeni o viceversa? In qualche modo, però, sentiva che padre Dardarian era sincero. D’altronde gli armeni gli stavano simpatici e aveva sempre fatto buoni affari con loro. Suo nonno per scherzare diceva che in realtà loro, i Continoğlü, erano in origine armeni: “Continian”, e che fu il padre di suo nonno a convertirsi all’Islam e a cambiare cognome. Questa storia lo aveva sempre divertito un sacco, ma ora si domandava se il nonno in realtà non stesse dicendo la verità, perché gli sembrava l’unica ragione in grado di spiegare questa sua affinità verso di loro.

– Ad ogni modo -, si disse mentre ancora alloggiava a Heidarabad, – non appena mi sarò scaricato di questo fardello, faccio voto di non toccare più un goccio di arak o altro per tutta la vita se Allah mi farà uscire vivo da questo guaio e se non andrò alla Mecca a ringraziarlo entro tre mesi -.

Arrivato finalmente alla meta finale Ljeavan, Continoğlü riuscì miracolosamente a compiere la sua missione senza che nessun intoppo o il benché minimo contrattempo lo ostacolasse. Ringraziò pertanto L’Altissimo, e con tutto fervore cominciò subito i preparativi per il pellegrinaggio, volendosi sciogliere il più presto possibile dal terribile voto pronunciato in un momento di malasorte.

Fu mentre cenava nella sua locanda qualche giorno prima della supposta partenza che la vide. Indossava un colbacco di astrachan, ma si intravedevano dei capelli biondi sotto di esso.

– Una bionda… che strano da queste parti -, pensò Continoğlü continuando a fissarla.

Lei lo vide, lo squadrò un secondo e poi si avvicinò con piglio determinato e disse:

– Buonasera, tovarich Effendi!-…

Massimo Khairallah

 

il 18 maggio del 1929

03 luglio 2008 01:46

io gangster

Erano affianco l’uno all’altro ormai ignari del come fossero arrivati lì, di come fossero riusciti a superare tutti quegli uomini di guardia al porto.
Quello alto e calvo si girò verso destra, osservò i suoi due amici e disse: “Adesso?”
Subito senza pensarci gli rispose quello più piccolo: “Morire!”
Il suo tono era pacato e profondo.
I loro occhi si incrociarono e si compresero senza parlarsi.
Fermi ad aspettare che il tramonto finisse, che questo sole terminasse la sua discesa verso l’orizzonte come la loro vita nel baratro.
Il tempo non finiva mai, e nemmeno il loro odio.
Massimo, detto l’Arabo, il terzo uomo: “siamo arrivati qui, non dimentichiamo il perché.”
Al suono di quelle parole tutti si misero a piangere, non un vero pianto ma un pianto silenzioso dell’anima. I loro pensieri si indirizzarono verso la morte delle loro donne, ammazzate da quei cani per punire loro. Le avevano fatte saltare col tritolo.
“Non ho saputo difenderla, è colpa mia se è morta”. Questo era l’unico pensiero nelle loro menti, ma nessuno aveva detto agli altri dei sensi di colpa che gli rodevano dentro.
Era il momento di agire.
Andrea, detto il Calvo: “Allora, entriamo a notte fonda e ne uccidiamo una buona parte nel sonno. Il resto… sarà quel che sarà!”
Gabriele, detto il Nano: “No, amico mio, senza dirvi nulla ho posizionato più di un chilo di tritolo sotto il culo di quei figli di puttana. Faranno la stessa fine…”
L’Arabo: “Ecco dove cazzo eri sparito, brutto stronzo! E se ti prendevano?”
Il Nano: “Ho fatto così sennò col cazzo, che mi lasciavi fare!”
Il Calvo: “Brutto bastardo! Che cazzo hai fatto? Ma poi, come hai fatto… ‘fanculo, ottimo lavoro!”
Il Nano: “Occhio per occhio! Sono stati loro ad insegnarmi come fare!”
L’Arabo e il Calvo erano due pezzi di porfido, grossi e semplicemente bastardi, addestrati alla mischia, al corpo a corpo. Il Nano invece era un uomo di statura bassa ma ben proporzionato. Anni di duro lavoro in palestra l’avevano reso più pericoloso di quello che la sua altezza a prima vista poteva far apparire. Nella banda della zona nord, dove tutti e tre militavano, gli avevano insegnato a fare una bomba anche con gli scarti della spazzatura e ad uccidere senza motivazione solo per lavoro. Ma adesso tutti e tre ce l’avevano, una motivazione!
Indossavano vestiti doppio petto di taglio italiano. Massimo l’Arabo era in gessato blu, Andrea il Calvo in un vestito nero con un bellissimo cappello bianco mentre Gabriele il Nano in un gessato grigio con in testa una coppola.
Nessuno dei tre aveva mai ucciso qualcuno che non fosse in grado di difendersi. In fondo era una guerra, quella vita, fame e fame, ma c’era un codice d’onore. Niente donne. Niente bambini. Potevi fare ottimi affari con l’alcool e quello era il lavoro della banda della zona nord. Il proibizionismo, che bell’affare per la mafia. Loro si erano messi in proprio. Ma non si uccidono le donne. Bastardi!
Il sole ormai era sceso da un paio d’ore, era il momento giusto.
L’Arabo e il Calvo si sistemarono le tre pistole nella cintura e caricarono il mitragliatore, mentre il Nano, che aveva due pistole in mano, disse: “Muovetevi!”.
Il Calvo saltò fuori dal nascondiglio urlando per farsi forza. I primi ad arrivare al portone furono i due pezzi di porfido che cominciarono a sparare a raffica con i loro mitragliatori. Il loro viso era immobile, solo gli occhi si muovevano impazziti in cerca di bersagli. Il mitragliatore dell’Arabo si inceppò proprio nel momento in cui si spalancò una porta: gettò per terra il ferro e si buttò con tutta la forza del suo corpo addosso ai due che ammazzò a pugni e calci. Era una belva che sfogava tutta la sua ira su corpi morti già dopo pochi colpi, senza riuscire a fermarsi.
Il Nano, appena tacquero i mitra, si scagliò assieme al Calvo contro gli ultimi uomini ancora in piedi, il coltello in una mano e la pistola nell’altra.
Dalla rabbia e la ferocia che si emanò sembrava di essere in un arrembaggio di altri tempi, si sentiva solo rumore di polvere da sparo e urla.
Il Nano urlò: “A sinistra Andrea!! Eccolo il bastardo!”
Il bastardo, il capo della banda, il Boss. Quello si doveva prenderlo vivo.
Il Nano balzò come un lupo sulla preda, nessun ostacolo poteva fermarlo con tutto l’odio che aveva in corpo. Saltò in avanti e con un colpo di coltello tagliò i tendini della gamba sinistra all’altezza del ginocchio e il bastardo cadde per terra inerte, rotolando.
Subito dopo arrivò il Calvo che lo prese a calci senza pietà.
L’Arabo: “ Fermi, non deve morire così velocemente!!! Ho trovato un altro amico…”
I due si girarono e videro l’Arabo, con un’espressione da vecchio gatto sornione, trascinare un corpo. La mancanza di luce rendeva difficile vedere, quindi si avvicinarono. Il viso era sporco di sangue e tumefatto, ma con gioia si accorsero che era Raffaele detto l’Angelo. Il braccio destro del boss.
Andrea: “ Leghiamoli, ‘sti figli di puttana!”
Massimo aveva già trovato due sedie e la corda, li legarono stretti.
Gabriele urlò: “Non resisto! Devo massacrarli!!!”
A quelle parole si scagliò insieme all’Arabo per colpirli con raffiche di pugni massacranti.
Sapevano bene dove e come colpire senza che svenissero o peggio morissero: dovevano soffrire!
Il Calvo: “ Lasciatemi qualcosa!”
A quelle parole Massimo indietreggiò e lasciò un po’ di carne per far divertire anche l’amico, mentre il Nano non interrompeva la sequenza di colpi, anzi la sua furia aumentava.
Massimo urlò: “ Nano di merda!!! Smettila che lo ammazzi!!!”
Ma l’odio e la pazzia erano troppo grandi e dovette trascinarli via a forza tutti e due.
Quindi l’Arabo, con calma, svuotò una tanica di benzina addosso ai due prigionieri. Il liquido infiammabile che li avrebbe uccisi lavava via il sangue dalle ferite facendoli urlare di dolore.
Poi posizionò sotto la sedia del boss una scatola da cui fuoriuscivano fili elettrici e un ticchettio di orologio: “ Tic-tac-tic-tac”
“ Tic-tac-tic-tac”: l’Arabo ripetè in continuazione questa cantilena durante tutta l’operazione. Ogni tanto si avvicinava all’orecchio dei due bastardi e alzava il timbro di voce: “TIC-TAC-TIC-TAC!”
Il Boss e l’Angelo urlavano disperati, ma il disprezzo e il rancore resero sordi i tre amici che non sentivano né le suppliche né le promesse di enormi somme di denaro.
Era come se le loro bocche si muovessero senza emettere suoni, come al cinema.
Il Calvo: “Sai Boss, l’ha costruita il Nano. È la sua opera migliore.”
Una grassa e profonda risata risuonò come un’eco sopra i passi dei tre che si allontanavano.
La loro agitazione era palpabile e nevrotica, tutti e tre guardavano le lancette correre nei loro orologi, sempre più vicine al momento tanto atteso.
Poi si scatenò l’inferno. nel giro di pochi secondi si sentì un boato seguito da una sequenza di piccole esplosioni. La scatola sotto al culo del Boss aveva innescato le cariche esplosive posizionate dal Nano e il grosso stabile di mattoni rosso scuro si scoperchiò in un attimo per poi afflosciarsi come un castello di carte. Una nube di fumo nero pece e polvere, che oscurava persino la luce delle fiamme che si erano sprigionate, invase l’intero isolato.
Il fumo si diradò insieme al loro odio. Quell’attimo sembrava fatto apposta per potersi guardare negli occhi.
Il Nano: “Adesso?”
L’Arabo: “Amico mio, era troppo comodo morire.”
Erano sporchi di sangue, polvere e piombo e solo in quel momento si resero conto che erano già morti in quel giorno maledetto. Nessuno di loro si preoccupò di essere ferito o no. Non restava nulla nell’anima a nessuno dei tre.
Si incamminarono verso la macchina zoppicando. Gabriele, seduto dietro, beveva assieme a Massimo una bottiglia di whisky mentre Andrea, seduto al posto di guida, fumando un sigaro disse: “Dobbiamo sparire, qui fra poco sarà pieno di poliziotti.”
Girò la chiave del cruscotto e marcia dopo marcia uscirono del porto mentre una lacrima scivolava sulle loro guance, una vera lacrima fatta di acqua e sale.
Finalmente.

Capriolo

 

Rac-Kontinovich 1 – La fantascienza

24 luglio 2008 15:59

blade_runner-prima + me

Lavoro duro come replicante in una piccola ferramenta di periferia. Sono un androide di seconda generazione. Di quelli che ancora sognano pecore elettriche. Il mio nome di fabbrica è Kontinovich 007-a-112. E sono nato nello stabilimento di produzione esseri robotici di San Pietroburgo. Che ora non c’è più. Il vecchio Herbie, che se ne sta sempre seduto nell’angolo blu della bottega. Ogni tanto vuole che glielo ripeta. “Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi. Navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione. E ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo… come lacrime nella pioggia. E’ tempo di morire…”. Ma io. Quelle cose non le ho mai viste. Sono venuto qui direttamente. Imballato. Dalla fabbrica. Certo poteva andarmi peggio. Potevo essere inviato nelle fluorescenti cave di zolfo di Alfa Centauro. Potevo essere facchino interstellare all’Astrolabio di Venere. Maniscalco nell’oscurità di un buco nero, dove bagliori improvvisi illuminano Polifemi ciechi che martellano colpi sordi su incudini di ghiaccio. Il vecchio Herbie sospira. Eppure non penso che pensi alla morte. In fondo fa parte della specie animale. La meno evoluta. E sappiamo che l’animale ha sempre il tramonto dietro a sé. Non pensa la morte. Si pensa immortale. Poi mi dice di andare a prendere una vite. La bottega è quattro metri per quattro. Il bancone di legno mi divide da un mondo che ho sempre e solo immaginato. Grazie alla scheda della rielaborazione del vissuto. Ma dietro c’è un universo di scaffalature che solo io so. Un labirinto impenetrabile per ogni essere umano. Che solo un’intelligenza artificiale può conoscere in ogni suo più riposto meandro. Io so che dopo due miglia nella corsia 7, girando a sinistra all’intersezione con la 456, c’è una minuscola ragnatela senza ragno, tra lo scaffale 5678 e il 5679. Io so che nella vaschetta 3456543221223, tra le autofilettanti da 35, ce n’è una da 40. E lascio che stia lì. Come lieve imperfezione del piccolo universo che governo. Perché anche questo posso vagamente elaborare. L’idea di dio. Una mente matematica che tutto conosce. Finchè non arrivo all’estremità della corsia 118-313. Limite del mio universo. Del mio labirinto. Io che sono Teseo e il Minotauro insieme. Là c’è una finestrella. E da là mi fermo a osservare la pioggia. La pioggia costante di questo pianeta alla deriva. Con una vena malinconica, che è un’imperfezione dovuta a uno sbalzo di corrente nell’alternatore secondario degli esemplari dal 2036 al 2045 del mio modello, accentuata dal passaggio ravvicinato di Saturno durante il trasporto, osservo piovere. Poi esco dal magazzino e torno nella bottega. Una voce dall’angolo blu. ‘Ripetimela ancora, Sam’.Matteo Bugliaro

 

Rac-Kontinovich 2 – L’infanzia

24 luglio 2008 15:59

Massimo Khairallah si portava sempre alle festicciole di compleanno, più come attrazione che in qualità di amichetto, il piccolo Contin, suo vicino di casa, sdoganandolo all’entrata, in quanto non mai invitato, come ‘amico scoreggione’, (sebbene che tra i suoi innumerevoli detrattori fosse più comunemente conosciuto quale ‘culo allegro’), perché bisogna ammettere che il suo numero, almeno tra la parte maschile degli invitati, riscuoteva un enorme ed esilarante successo, spesso un faticoso sforzo nella rincorsa all’emulazione, da parte dei più intraprendenti e geneticamente dotati, mentre altri, meno dotati, ma più fantasiosi, in una sorta di naturale compensazione, in una loro presunta genialata, slacciavano il terzo bottone della camicia e infilavano la mano sotto l’ascella, mentre il festeggiato si limitava di solito a sopportare la cosa con una mal simulata accondiscendenza, con un sorriso tirato e a spalancare le finestre con fare automatico, forse pensando al ritorno dei suoi, come sovrappensiero. Mentre il piccolo Contin, o si esibiva asfitticamente con la sottile maestria del suo inseparabile strumento, emettendo dove il rombo temporalesco del timpano, percosso con accordi di diluvio, baritoneggiando con l’ano, a creare vorticosi cerchi concentrici nello spostamento dell’aria, borbottando con quell’enorme bassotuba, dove uno stridulo contrappunto di barbaricciaresca trombetta, chicchiricchiando alla farinelli in imitazione del virtuoso clarinetto che trilla indiavolato, conficcando invisibili frecce acute nel timpano degli astanti, un olifante che facesse esplodere le vene delle tempie (nel buio delle stanze più segrete, adibite a gineceo, mollemente adagiati su cuscini sparsi per terra, fumando sigarette truccate, giovani accoppiati si portavano la mano all’orecchio offeso da quella sonora puntura di zanzara) ché tutta un’orchestra sinfonica per concerto grosso portava con sé, oppure se ne stava in disparte, quale cavernicolo alla luce di un fuoco, ricaricandosi delle gassose energie disperse, si dilettava a proiettare sul muro di fronte, una luce alle spalle, oscene contorsioni, indicibili accoppiamenti, intrecciando dita, come membra, mani come corpi, una sul dorso dell’altra a figurare l’animale con due schiene, palmo contro palmo fingendosi lascivo missionario in preghiera, e così viveva platonicamente la propria alquanto confusa sessualità, sempre in compagnia del proprio inseparabile amico invisibile, al quale bisbigliava in continuazione delle sue geniali trovate, come estrarre un pencolante dentino da latte attaccandovi l’estremità di uno spago e l’altro capo alla maniglia della porta, nell’attesa di una visita, e poi struggersi nel frattempo, scervellandosi del nesso, e di questo discutevano animatamente (essendo l’amico invisibile di Contin, cittadino di un altro mondo, dalle diverse usanze, così come il piccolo Contin altri non era se non, a sua volta, l’amico invisibile del suo amico invisibile, visibile nel suo mondo, dal quale indottrinava il piccolo Contin sui diversi usi e costumi del proprio paese), tra la caduta del dente e la comparsa mattutina di un soldino da cinquecento lire sotto il cuscino, finché non comparivano, chiaramente visibili sulla parete bianca, come proiettate sullo schermo del cinematografo, come a sostituire le precedenti oscenità, le sue beate, periodiche visioni angeliche, santi minori e madonne nere, troni dall’ambigua genealogia celeste (a volte dubbiosi di essere Cherubini o altrimenti Serafini, se ne scendono attraverso rarefatti strati di paradisiaca e vaporosa sostanza fino alla seconda gerarchia, solo per screditare arcaici areopagiti e teologi sommi, mantenendo la loro inammovibile dignità) e arcangeli dai lunghi capelli brizzolati (con le ali ormai spiumate, alcune completamente, come alberi rinsecchiti d’inverno, foglie dimenticate in un libro d’infanzia cui sia rimasta la venatura soltanto, per la rarità di Annunciazioni da recapitare a verginali fanciulle, se ne stanno seduti con il mento nel palmo della mano a meditare sulle sorti del cosmo, della lotta tra il bene e il male, sul significato della caduta, del destino del compianto fratello Lucifero, che ebbe ben altro, luminoso, effimero momento di gloria), cristi in strane fogge e atteggiamenti (a volte annoiati gesù bambini con spade di legno (costruitegli con due assicelle di scarto, scheggiati pezzi di riloghe o inutilizzati listelli di parquet non ultimati, quali enigmatici mosaici, o marcescenti doghe di botti divelte, dalla pressione di un vino fermentante, e un chiodo, dallo stesso Giuseppe) e tamburini di latta, altre volte gioca a giochi di ruolo, compare vestito da Pilato, ma in un suo personale carnevale si atteggia a Nerone, stona stornelli e s’impegna a molcere con maldestra mano la lira funesta1) e profeti dimentichi (ormai in disuso, ancora affaticati da loro inumani deserti di meditazione e d’oblio, dove nessuno li tentava più, nonostante fossero pronti a cedere), venivano a visitarlo, egli le attendeva devotamente in ginocchio, e queste davano i numeri, anche le ruote, stranamente sempre sbagliati (mentre l’amico invisibile, chiaramente in imbarazzo, se ne stava in una tutta sua indifferenza, quasi ironica, non riconoscendo in quelle apparizioni alcuno degli dèi, anche minori, del variegato olimpo del proprio universo parallelo, e un poco sempre più dubbioso comunque delle proprie stesse credenze, rimuginando perplesso sul presunto relativismo cosmico di Dio, su questo Suo travestirsi, prendere e lasciare, a seconda delle ere e degli universi, diverse pose, colorite sembianze, forme transeunte, nomi dimenticati, ambigui attributi, poteri soprannaturali, il tutto forgiato per la bocca dell’Oblio)2, sovente al piccolo Contin gli si apriva un oculo, direttamente sul soffitto, spesso senza che neanche se ne accorgesse, dal quale puttini e amorini mostravano le terga paffute o minzionavano con innocente spensieratezza3, o si affacciavano San Girolami di passaggio, con una freccia conficcata nell’occhio, l’altro triste, guardingo o Sant’Antòni che cercassero di ricordare qualcosa che avessero dimenticato o perso, San Cristofori senza bagaglio, appoggiandosi alla balaustra di pietra, annoiati, insoddisfatti, forse perché precocemente prepensionati, forse perché alloggiati al settimo cielo, degli spiriti contemplanti4. Così il piccolo Contin era stato sottoposto, senza ottenere risultati soddisfacenti, già a due pseudo-esorcismi. Il primo, quando frequentava le elementari dalle suore, era stato consigliato da quest’ultime, già da tempo esasperate dalla presenza invisibile dell’amico di Contin, fuoriuscito, per il loro immaginario dantesco, dalle viscere basse degli inferi, (e per alcune, personificazione stessa del demonio, che invisibile indirizzasse le gesta del fanciullo che pareva aver ceduto l’anima al diavolo, per aver sottoscritto legale accordo su un dentellato quadrato di carta igienica, malamente e illegibilmente paraffato)5, per averlo visto rigettare dell’inchiostro, nelle ore del dopo scuola, ignare del fatto che a pranzo avesse assaggiato un risotto al nero di seppia, e scambiando un’intolleranza alimentare per un chiaro segno di Satana. Così era stato portato d’urgenza, scortato da un gruppo di cinque suore biancovestite, al cospetto di Don Dollaro, che stava a quell’ora meditando pesantemente su certi passi ambigui delle Sacre Scritture, per redigere, con correzioni e sottolineature, la falsa riga dell’omelia domenicale, anche emettendo un suono sincopato dal naso e dalla laringe, quasi un salmodiante bruxismo, per l’impegno del ponzare, nello sforzo intellettuale di quell’esegesi biblica), non così preparato in materia esorcistica, (e tra l’altro ancora annebbiato dalla repentina emersione dal Testo nel quale era totalmente immerso in profondità quasi profetiche, (quale raccoglitore di spugne che si tuffasse in apnea in un mare di coralli dalle figure ritorte, allusive, o vecchio monarca orientale che si facesse calare negli abissi in una boccia di vetro, arcaico scafandro, sommergibile precursore, per contemplare esseri mai visti, dai significati ancora oscuri, vergini metafore, ambigui elementi del dittico di una complessa analogia non ancora espressa) completamente abbandonatovi come i sette di Efeso, sì che dovette stropicciarsi gli occhi che ancora sovrapponevano una visione letterale, di righe sovrapposte, alla realtà, come titoli di coda sull’ultima scena di un film, nel quale cinque non ben definite figure, simili a spennacchiati angeli ottuagenari, e lievemente baffuti, presentassero uno spaurito Gesù bambino al cospetto di un Saggio della sinagoga (ché un nuovo Maimonide si sentiva), che dal suo canto si dovette asciugare anche un rivolo di saliva che nella concentrazione dello studio, dimenticanza e abbandono del corpo, gli era calato lungo il lato sinistro del mento, laddove aveva reclinato il capo per meglio mettere a fuoco una visione interiore, una mistica rivelazione di uno dei significati della Scrittura dell’Altissimo, che inumidendo il Sacro Testo, desunto da un enorme codice miniato del quattrocento, gli si era stampato sulla guancia mancina, dalla quale avrebbe più tardi potuto leggere a ritroso quel versetto contraddittorio per un attimo pensando al miracolo, come di una colta stigmate che avesse fatto fiorire sul suo corpo la Parola di Dio, anche se subito dopo invero vergognandosi per essersi fatto sosprendere in così poco dignitosa posa, da quelle cinque, inopportune e becere, porta infanti, porta iella, porta dubbi circa la teoria teodicea, quelle cinque che, evidentemente, non erano propriamente Agostino da Ippona che sorprende il Vescovo Ambrogio nell’intimo atto di leggere tra sé e sé taluni testi sacri6) che aveva a sua discolpa anche balbettato delle futili rimostranze per giustificare la propria inettitudine e ritrosia, risolvendosi alfine per una generica benedizione che si concluse, complice un maldestro movimento, per via del braccio sinistro ancora anchilosato7 e formicolante per la posa assunta nello studio che impresse un’eccessiva oscillazione al turibolo, che aveva creato una mistica nube d’incenso, con la rottura del setto nasale del povero piccolo Contin, che sfigurato veniva applaudito e abbracciato e baciato e accarezzato dalle cinque sorelle, per aver apparentemente espulso la tentazione di Satana dal proprio giovane e influenzabile corpo sanguinante.

Il secondo esorcismo fu invece richiesto dalla madre del piccolo Contin, da una parte infastidita dal fatto che il figlio fosse sempre più disturbato da quelle fallaci visioni ultraterrene, dall’altra speranzosa che la Madonna almeno, dopo l’esorcismo, riuscisse a prevedere se non un terno, come minimo un ambo secco, per Dio! E questa volta l’ignorante Don Dollaro aveva chiesto lumi all’ambiguo Prete di Anghiari. A questo secondo esorcismo oltre ai due prelati, al presunto indemoniato e alla madre di quest’ultimo (che come detto, se possibile, non esigeva l’allontanamento effettivo del presunto demone, ma quanto meno un miglioramento della sua inefficace preveggenza e alla quale il prete di Anghiari, impappinandosi un poco nel suo impapocchiare, rispose con una citazione di San Paolo, tratta dalla Prima lettera ai Corinzi (14,34): ‘Mulieres in Ecclesiis taceant’) era presente anche il sagrestano, con il compito di redigere un’accurato resoconto del rito da inserire, ottenuta l’approvazione del Vescovo, nel registro della parrocchia e in copia autenticata da spedire direttamente agli archivi della Santa Sede, dove si trova tuttora in unica copia autenticata e con annesso il catalogo numerato degli oggetti fuoriusciti dal corpo del piccolo Contin. Così è che. Quando il prete di Anghiari tracciò il cerchio di gesso presso il primo gradino che portava all’altare, e un esterrefatto Contin vi entrò, prima ancora che il prelato avesse terminato la formula esorcistica, il corpo che ospitava il presunto demone, a volte piegato in due dal partoriente sforzo di un interminabile conato, a volte con la naturalezza di un innaturale gioco di diabolico prestigio, cominciò a recere gli oggetti più disparati. [segue il catalogo dei 66 oggetti rigettati dal corpo dell’indemoniato, nel quale si trovano tra gli altri: 1) una manopola di bicicletta con le frange, 12) un modellino giallo di un furgone volkswagen (con la dicitura ‘Lollobus’), 14) un albino nano da giardino in gesso, con copricapo rosso, 45) un pianoforte a mezzacoda, 65) i tabulati del traffico aereo della torre di controllo di Palermo del 27 Giugno 1980, che il prete di Anghiari, dopo una veloce lettura, bruciò alla fiamma di una candela votiva, 66) un essere immondo, completamente glabro, vagamente somigliante al piccolo Contin (e a Mastro Lindo), ma adiposo e spaurito, forse un demone minore, finalmente venuto allo scoperto, scappò un poco per la chiesa (anche appendendosi alla croce, le terga in evidenza), per poi scomparire magicamente e anni dopo riapparire nelle foto di un sito internet intitolato a un certo Andreij Kontinovich].

NOTE AL TESTO

1 In una precedente versione la parentesi così continuava: ‘tant’è che pare che il padre suo – non si sa se quello biologico che bisognasse di un garzone in falegnameria, laddove si affastellavano riccioli di trucioli, come da un barbiere per biondi fanciulli o per iperborei cherubini, e farinose segature, simili agli scarti della molatura di un molino, non mai del resto del tutto convinto della versione della moglie Maria, che aveva giustificato l’adulterio attribuendolo a un non ben definito arcangelo a nome Gabriele (e omonimo, per colmo della beffa, del figlio minore del rabbino, dai tratti normanni), se proprio il figlio non aveva intenzione di mostrare le sue presunte doti anzitempo, mentre invece dovette tenerselo sfaccendato e capellone e hippy (e in sospetto di tossicodipendenza) fino ai trentanni, o il Padre Celeste, al quale occorreva un guardiano paradisiaco da affiancare allo stremato Pietro, che si aggirava per i cieli ormai del tutto consunto dal suo compito eterno, tale e quale a un agente di custodia, annunciato e seguito da un monotono tintinnio di chiavi che ha appese alla cinta, ad aprire, chiudere porte nel paradiso, che spesso danno, con sua grande costernazione, sul vuoto, su spiraliformi scale senza fine, su scrostati muri di mattoni, su incubi architettonici, su trompe-l’oeil di disegni di Escher, su oscuri retrobottega di rivendite di biciclette usate, su interni di cucine della periferia di Varsavia, dove perennemente si cucinano cavoli, su palestre vuote, su bugigattoli per le scope di ristoranti cinesi, su vespasiani nei quali sonnecchiano anziane inservienti in grembiule azzurro, con un sottovaso colmo di monetine di rame di fronte, su distaccamenti di sottosezioni di gironi minori dell’inferno, su ragnatelosi magazzini di teatri, dove attrezzisti frettolosi hanno abbandonato disordinatamente gli oggetti di scena più svariati, in un affastellarsi di drammi e di commedie, di tempi e di ere, nei quali spesso è tentato di nascondersi, (sull’orlo di un esaurimento nervoso, sospirando, occhiaie da animale in via estinzione, occhi che ancora per un guizzo di speranza di neppure lui sa cosa scintillano nel buio, aureolati di nero quale controfigura di un Rodolfo Valentino in dimenticanza), per rincantucciarsi in un angolo tranquillo dove sgocciola il silenzio privo di ore e di orazioni, in attesa che un troppo solerte galoppino celeste gli faccia tana per riportarlo al suo compito eterno – l’apostrofasse brutalmente, dicendogli “Al tuo tempo ed etade si conviene regnare e non ceterare”, così come apostrofò Antigono, conducitore e pedagogus, il discepolo suo, Alessandro Magno, quando scortolo per suo diletto sonare, e ‘il sonare era una cetera, che Antigono prese e ruppela e gittola nel fango, gli insegnò che vergognisi dunque chi dee regnare in virtute, e diletta in lussuria’.’ Questa continuazione, asportata dal corpus del testo in fase si revisione, deformava i tempi dell’azione proponendo due diverse versioni e ambientazioni di una medesima frase. Nella prima versione saremmo stati nel 30 d.c., allorquando Giuseppe, stremato dal non fare del figliastro, lo spronava all’agire, ché se proprio non aveva intenzione di aiutarlo nella falegnameria di famiglia, almeno andasse a regnare quale re d’Israele quale pare egli andasse predicando, per ora solo agli amici al bar (leggi bar-mizvar), di essere, mentre nella seconda versione saremmo nell’Alto dei Cieli, laddove il Cristo si trastrulla con strumenti a corda, esasperando i Beati, invece di dare una mano nella gestione del Paradiso, così come gli converrebbe, quale Re della Gerusalemme Celeste. In seguito vi è un paragone con Alessandro Magno, evidentemente tratto dal ‘Novellino’, raccolta di cento novelle, di autore anonimo, composta verso la fine del Duecento (vedasi ‘Novellino’, a cura di A. Conte, Ed. Salerno, Roma, 2001)

2 Come non sentire, subito a pelle, l’inconfondibile eco delle Profezie messianiche di Michea IV, 4-5, dove: ‘E ciascuno si sederà sotto alla sua vite e sotto al suo fico, senza avere timore da nessuno, perchè la bocca del signore degli eserciti ha parlato. Perché tutti i popoli cammineranno ciascuno nel nome del suo dio, ma noi cammineremo nel nome del Signore Dio nostro per sempre’, amen.

3 Nella precedente edizione si leggeva: ‘innocenza spensierata’.

4 Il riferimento è all’affresco di Andrea Mantegna, che decora la Camera picta o più comunemente la Camera degli sposi (1465-1474), in Palazzo Ducale a Mantova, illusionisticamente trasformata in un padiglione aperto sul porticato e sulla campagna popolata di castelli e città turrite, che mostra due scene della vita del marchese Lodovico Gonzaga sulle pareti e si apre nella volta attraverso quell’ardito effetto di sotto in su dell’oculo a cui accenna l’autore nel brano annotato che così continuava: ‘(venivano da un campo di bocce del secondo cielo, se ne andavano a farsi un tresette col morto nell’Empireo)’.

5 Chiaro riferimento alla ‘leggenda di Teofilo’, modello del patto col diavolo, rappresentato chiaramente nel salterio della regina Ingeburga, 1210 ca., conservato al Musée Condé, di Chantilly, diviso in quattro scene: nella prima Teofilo rende omaggio al diavolo, alla maniera di un vassallo, con le mani giunte nella sinistra del diavolo; questi, nella mano destra, tiene la pergamena srotolata (che diviene riquadro di carta igienica nella versione della leggenda che l’autore rievoca), nella quale Teofilo dichiara:«sono il tuo uomo». Nel secondo momento Maria appare a Teofilo pentito (così come appare a Contin), nel terzo Maria strappa al diavolo il contratto che Teofilo gli ha consegnato come garanzia del patto e che rappresenterebbe l’anima del peccatore. Nell’ultima scena infine Maria rende la carta a Teofilo durante il sonno, così da liberarlo completamente dal suo scellerato patto col demonio.

6 Evidente il riferimento alle Confessioni di Sant’Agostino, e segnatamente al Libro VI, cap. 3, nel quale Agostino scorge Ambrogio nell’atto, inusuale a quei tempi in cui la lettura era lettura ad alta voce, declamazione, arte oratoria, anche in privato, di leggere in silenzio: ‘Caterve di gente indaffarata, che soccorreva nell’angustia, si frapponevano tra me e le sue orecchie, tra me e la sua bocca. I pochi istanti in cui non era occupato con costoro, li impiegava a ristorare il corpo con l’alimento indispensabile, o l’anima con la lettura. Nel leggere, i suoi occhi correvano sulle pagine e la mente ne penetrava il concetto, mentre la voce e la lingua riposavano. Sovente, entrando, poiché a nessuno era vietato l’ingresso e non si usava preannunziargli l’arrivo di chicchessia, lo vedemmo leggere tacito, e mai diversamente. Ci sedevamo in un lungo silenzio: e chi avrebbe osato turbare una concentrazione così intensa? Poi ci allontanavamo, supponendo che aveva piacere di non essere distratto durante il poco tempo che trovava per ricreare il proprio spirito libero dagli affari tumultuosi degli altri. Può darsi che evitasse di leggere ad alta voce per non essere costretto da un uditore curioso e attento a spiegare qualche passaggio eventualmente oscuro dell’autore che leggeva, o a discutere qualche questione troppo complessa: impiegando il tempo a quel modo avrebbe potuto scorrere un numero di volumi inferiore ai suoi desideri. Ma anche la preoccupazione di risparmiare la voce, che gli cadeva con estrema facilità, poteva costituire un motivo più che legittimo per eseguire una lettura mentale. Ad ogni modo, qualunque fosse la sua intenzione nel comportarsi così, non poteva non essere buona in un uomo come quello.’.

7 Anchilosato: da Anchise? Scomodamente appollaiato sulle spalle di Enea?

Matteo Bugliaro

 

Andreji alle Olimpiadi

10 settembre 2008 14:58

salto in lungo+me

Gli avevano detto che era meglio facesse il salto in alto. Ma lui niente, si era impuntato con il lungo, anche se più di qualche volta si era esibito in zompi degni di un grillo.
Gli avevano detto di fare il lancio del giavellotto, che era più adatto a lui, e in cui avrebbe sicuramente trionfato… ma non ne volle sapere.
Andreji Continovich, il piu’ grande atleta di Russia dopo Eltsin, che però lo era in una specialità ingiustamente non olimpica, lo svuotamento del bicchiere, era fatto così. Ormai aveva consacrato la sua vita al salto in lungo, e tanto si sforzò, e tanto ci credette, che andò pure alle Olimpiadi… In fondo il talento è tale qualsiasi cosa si faccia.. E poi lui non aveva mai visto la Cina.
Era la sera della grande finale. Tutta la Russia aspettava la grande prova di Andreji Continovich, che avrebbe messo finalmente a tacere i critici, e zittito chi continuava a blaterare sulle sue scelte.
Era la sera della grande finale, milioni di televisori erano sintonizzati sull’atletica, la gente non era andata neanche al lavoro per vedere il salto di Continovich…
Era la sera della grande finale, il presidente aveva annullato tutti gli impegni per volare a Pechino e farsi la foto con il gran vincitore…
Era la sera della grande finale. Ma del campione russo nessuna traccia.
Lo cercarono dappertutto, per terra e per mare… ma nessuno lo trovò più.
Quella sera era rimasto a fare una gara di bevute con gli atleti georgiani.Non si sa chi avesse vinto.. ma in fondo, non era poi così importante.

Piddino

 

ANDREIJ “WAITS” KONTINOVICH E IL SUO TRIO

24 settembre 2008 10:43

 A)

Stava ancora piovendo.Andreji si sentiva un grand’uomo a fottersene della pioggia e camminare lentamente al centro della strada, mentre tutti correvano a cercarsi un riparo.
Sì, insomma.. lo scribacchino inglese non aveva tutti i torti quando diceva che la vita è un grande palcoscenico in cui ognuno recita la propria parte..
e la sua era quella di un pianista di jazz..
Si ripeteva quella parte all’ infinito, se la preparava studiandone i percorsi, gli eventali ostacoli e i rischi.. e proseguiva.. e ancora..

A)
La porta del locale era, tutto sommato, abbastanza indecente per accogliere la sua entrata..
Alla destra della porta, un foglio di carta bagnato con scritto a pennarello:
“STASERA MUSICA JEZZ LIVE CON ANDREIJ “WAITS” KONTINOVICH E IL SUO TRIO”

Oltre la porta, in fondo alla sala, i suoi musicisti già lo aspettavano sopra il palco, ubriacati a gratis dalla solita cameriera infoiata.

Erano di quei musicisti che credevano ancora che per suonare jazz ci si dovesse vestire come dei barboni..

B)

Vi sto camminando attraverso.. come se non esisteste.. perchè voi, in realtà.. non esistete..

non esistete più.. se non per farmi da pubblico.

Passo con fare disattento, ma in realtà vi sto scrutando.. annusando..

Ho dovuto spaccarmi il culo, ho dovuto imparare ad usare l’empatia, ho dovuto passare la vita ad analizzare la psicologia e gli atteggiamenti dei critici.. e i vostri.. ma ora vi ho fottuto.

Mi avete liberato.. mi avete dato il riconoscimento. L’applauso.

Mi avete spinto sopra l’ ingranaggio del sistema “Arte”. Voi mi ci avete fatto salire ed ora sono finalmente libero di mettervelo nel culo senza doverne subire le conseguenze.

Voi.. Voi non capirete un cazzo di quello che succederà di qui a poco sul palco.. ma mi applaudirete lo stesso.

A)

an..du, an..du..tri.. stop.

Grazie a tutti.

Buona notte.

clap .. clap.. clap..
Max Lazzarin

 

La Scuola di Atene

… e c’è anche questo dono o talento nella musica certo ma anche nel Discorso.

Nell’antica Grecia avrebbe potuto rivalizzare con i più grandi filosofi sebbene che Raffaello l’avrebbe dipinto ai fianchi di Platone o Socrate nell’affresco “La Scuola di Atene” nelle stanze del Vaticano. Avrebbe potuto diventare Guru ma non va più talmente di moda. Di conseguenza è diventato professore di disegno, profession qui lui “colle à la peau”.

Basta questa lista di cose per capire quanto mi è caro questo personaggio “haut en couleurs”!

Samantha

 

Orange juice

10 giugno 2009 18:37

arancia + me

(Clicca sull’immagine per il testo integrale)

 

1.

“Buongiorno, Emily. Hai dormito bene?”

Sulla tovaglia a quadri ci sono già pane tostato, burro, marmellata e tre tazze di caffè.

Prendo dal sacchetto dieci arance e le allineo sulla credenza, accanto allo spermiagrumi e ai cinque bicchieri.

Ieri pomeriggio me ne stavo, spalle al muro, nel mio angolo dell’aula di pittura. Da lì posso vedere chiunque entri o esca, il che spesso mi distrae, ma è sempre meglio di dare le spalle a tutti, sentirsi osservata e non sapere da chi. Un po’ di carminio, del bruno Van Dijk, tentavo di rifare una pennellata à la Rubens; ed ecco il prof. Stiller, il mio tutor. Certi giorni non c’è verso di lavorare; in ogni modo, meglio lui che un altro. Sembrava contento. Arriva, mi parla dei corsi estivi alla scuola di grafica di Venezia, di una borsa di studio, dei miei lavori dello scorso semestre… Non lo seguo, perché vuole che li presenti? Sono solo compiti, magari ben fatti, ma niente di originale. E lui, tutto eccitato, “Non mi sono spiegato! Ho già proposto i tuoi lavori, e oggi la Fondazione ha pubblicato i risultati delle selezioni. Non sei contenta?”. Contenta, di cosa? A quanto pare, hanno già deciso tutto: la borsa copre vitto, alloggio e frequenza ai corsi, la scuola mi fa un prestito per pagare il viaggio, da restituire più avanti, dopo il diploma… Ma perché nessuno chiede il mio parere?

Prendo la prima arancia a sinistra, la taglio; ne spremo metà, quindi l’altra metà, poi appoggio le bucce a destra, in fondo alla fila. Seconda arancia, un bicchiere è pronto; lo appoggio sul vassoio e riprendo il coltello.

Stiller dà per scontato che sia una splendida notizia; e, certo, è un’opportunità unica.

Qualunque studente d’arte vorrebbe essere al mio posto… ma il mio stomaco si rifiuta di collaborare. Da ieri sera ho la nausea. Venezia… San Marco! Cinque cupole su pianta a croce greca, le mura ricoperte di marmi razziati durante le Crociate, le porte di bronzo, i cavalli. Il mosaico con il corpo del santo, gli intrecci di pietra in stile moresco, il pastore scolpito ad immagine di Ercole. Uno stratificarsi di arti, di stili e di culture fuse l’una nell’altra in un’opera di bellezza miracolosa, una sfavillante enciclopedia del Cristianesimo.

Terza arancia, spremiagrumi, bicchiere, quarta arancia. A Venezia starò bene. Perché non dovrei? Non sarò sola, magari verrà anche Stiller, non glie l’ho chiesto. Ero stordita. Ieri sera, alla bottega di Mr. Fiorelli, ho urtato una pila di cassette e l’insalata è finita a terra, e anche il mio sacchetto di arance. Oggi è fine mese, devo ricordarmi di chiedergli il conto. Quinta arancia; sesta. Passeggio con gli occhi socchiusi sulla riva, carpisco il segreto del riverbero della luce sull’acqua. Anche la mamma, a cena, era tutta entusiasta. Prima pensava che avessero selezionato i miei lavori per una mostra. Mamma, non è una mostra.

E’ una borsa di studio.

“Ma stai per diplomarti… Studierai ancora, Emily? Forse alla tua età sarebbe ora di…”

No, mamma. Aspetta. E’ una borsa di specializzazione, ma breve. A Venezia.

Silenzio. Mamma sgrana gli occhi:

“…Venezia!!!?! Ragazzi, venite! James… Venezia! Che bello Emily, che splendida notizia! James vieni a sentire! Harry, Ernest, la cena! Ragazzi!!!”

Poi mi dà un bacio dei suoi, che si sente lo schiocco fino in camera, e se ne va ridendo. A volte fa così; se ce l’avessi anch’io, il suo buon umore…

Altre due arance e ho finito. Io invece sono stanca, ho passato la notte a rigirarmi nel letto. Destra: la tenda blu scuro che ondeggia nella penombra, qualche luce e rumori dalla strada.

Un semestre è lungo… non ho mai messo piede su un aereo… a Venezia ci sarà un

aeroporto? O dovrò prendere la nave? Sinistra: altra luce che filtra sotto la porta bianca, la scrivania lo scaffale la sedia, bianchi. Tiziano, la luce dell’inizio, le pennellate lunghe e nervose degli ultimi anni. Le quarantatré tele di Tintoretto alla Scuola di San Rocco. Le ombre degli affreschi di Giorgione sui muri esterni dei palazzi. Ho letto da qualche parte che non si è mai stati a Venezia se non ci si arriva dal mare; dunque, andrò in nave.

Ultimo bicchiere. Raccolgo le bucce e le getto tutte insieme nel bidone. Svito lo spremiagrumi, lo lavo, bagno lo straccio sotto il rubinetto, lo passo sulla credenza. Sollevo il vassoio, mi giro, lo appoggio sul tavolo.

“…hai dormito bene?”

Incrocio lo sguardo di mia madre, le sorrido.

“Si”.

(continua…)